INCONTRO, MARTIN POLLACK
Scrittore, traduttore, reporter. Martin Pollack è uno degli autori più importanti della letteratura austriaca ed europea. Erede di una visione mitteleuropea e trasnazionale porta con sé anche le cicatrici dei drammi del XX secolo. Forse per questo ogni suo libro passa di mano in mano ed è consigliato per comprendere il paesaggio culturale dal quale proviene l’Europa. Quest’anno è stato insignito anche del prestigioso premio Johann Heinrich Merck concesso dalla Deutsche Akademie für Sprache und Dichtung.
In quell’occasione lo storico Karl Schlögel ha tenuto una bellissima laudatio. Vi citiamo la parte iniziale. La versione completa la trovate sul sito dell’Accademia tedesca.
Per la foto di Martin Pollack:
© C.Stadler/Bwag; CC-BY-SA-4.0
Questo lavoro di presa di coscienza e chiarimento è più urgente che mai in un “periodo dei disordini” nel quale pare essere in gioco tutto ciò che si raggiunse dopo la guerra.
Un'intervista
Keller editore continua l’opera di traduzione dei lavori di Martin Pollack, iniziata ormai nel 2016 con Paesaggi contaminati (trad. Melissa Maggioni) e proseguita nell’anno successivo con Galizia (trad. Fabio Cremonesi). Da allora si sono avvicendati altri libri fino al recentissimo L’imperatore d’America, nella traduzione di Enrico Arosio, ideale e reale prosecuzione del bestseller Galizia. Un autore che incarna pienamente spirito, sguardo e temi della nostra casa editrice. Proprio in occasione dell’uscita del suo ultimo libro riproponiamo l’intervista che gli aveva fatto Gabriele Santoro e apparsa sul numero 2019/01 di «Sul Confine».
Scrittore e giornalista, traduttore dal polacco di vari reportage di Kapuściński, Pollack ha visto solo un paio di volte di sfuggita il padre, un nazista attivo anche nella Polonia occupata e nel Caucaso, poi ricercato dalla polizia federale austriaca per crimini di guerra. Si è messo sulle sue tracce per sapere chi egli fosse stato veramente, che cosa avesse fatto, accettando di pagare il prezzo del disfacimento dell’universo familiare borghese acquiescente.
E n’è nato un libro prezioso, Morte nel bunker. Indagine su mio padre, che non è etichettabile entro confini di genere. È davvero tante cose insieme: romanzo documentario, reportage, saggio. Come in altri testi Pollack interroga l’identità, che nelle sue pagine avversa l’inganno e la mimetizzazione nelle pieghe della Grande Storia. Nella rottura con la nonna, che da lui pretende la promessa di non sposare una polacca o un’ebrea, ci sono il senso e il peso del viaggio di Pollack. Lui ricostruisce l’idea più alta di una cartografia umana dell’Europa scevra da rimozioni forzate.
Pollack, quale ragione intima l’ha spinta a sgretolare la congiura del silenzio familiare sui crimini commessi da suo padre?
«Se si nasce in una famiglia come la mia, nella quale tutti, ma proprio tutti, il nonno, il prozio, la nonna, il padre e lo zio sono stati nazisti attivi e si sono riconosciuti nel nazismo, esistono tre possibilità: si seguono le orme del loro percorso, come per esempio il politico di destra Jörg Haider, si cerca di tacere e nascondere tutto oppure si affronta il passato della propria famiglia e si fa un resoconto di ciò che è stato. Per me quest’ultima era l’unica via percorribile. Volevo capire soprattutto come persone apparentemente normalissime, quali erano mio nonno e mio padre, fossero diventate dei criminali, che cosa abbia animato e fatto scattare la violenza».
Sua nonna le inculcò l’idea del comportamento onorevole del figlio. Lei come si pone davanti al bivio, a cui molti si appigliarono, tra la responsabilità personale e l’obbedienza militare?
«Sono uno storico e so che nessuno fu costretto a partecipare alla fucilazione di ebrei o partigiani. Mio padre avrebbe potuto rifiutarsi e non gli sarebbe successo nulla, tutt’al più avrebbe avuto un’ammonizione e sarebbe stato relegato in qualche ufficio a sbrigare carte. È stata una sua libera scelta. Certo, subiva qualche pressione da parte della famiglia per l’educazione ricevuta, ma ciò non cambia la sostanza del fatto che fu lui a scegliere liberamente di partecipare a quegli interventi…».
Qualora sia possibile, come si supera la coraggiosa distruzione dell’infanzia in nome della verità?
«Se sia riuscito o meno a farlo, sta ad altri giudicare, per esempio a mia moglie. Mi impegno a condurre una vita normalissima e a non farmi schiacciare dal peso del passato. Non sempre è stato facile, ma credo di esserci riuscito».
Nella sua ricerca, in che modo si sovrappongono l’aspetto privato della storia e quello pubblico della Storia del Novecento?
«I due aspetti sono intrecciati inscindibilmente. Nelle mie ricerche ho maturato la convinzione che nella storia della mia famiglia non ci sia quasi nulla considerabile di natura prettamente privata. Una delle sorelle di mio nonno sposò un ebreo a Zagabria, un’altra rimase a Laško nell’attuale Slovenia, da cui la famiglia era originaria, e sposò uno sloveno. A prima vista si trattava di scelte del tutto personali, ma anche politiche, perché entrambe presero le distanze dal nazionalsocialismo, cosa tutt’altro che facile all’interno della famiglia».
Mai prima dell’otto luglio del 1991 un cancelliere della Repubblica austriaca, Vranitzky, ammise in Parlamento che l’Austria non fu solo una vittima del Terzo Reich. Resiste ancora questo mito dell’innocenza costruito nel dopoguerra e più in generale l’Europa ha davvero fatto i conti con il nazifascismo?
«Il mito dell’innocenza non è mai stato superato completamente. Ancora oggi, molti austriaci ritengono di essere stati soprattutto vittime e solo in casi eccezionali anche colpevoli. E se si guarda a quello che succede in Europa, la fortissima spinta a destra in alcuni Paesi, spesso legata a un esplicito richiamo al fascismo o al nazionalsocialismo, bisogna ammettere che una vera e propria resa dei conti con queste ideologie non c’è ancora stata. Perciò mi sembra importante non smettere mai di affrontare il problema».
Un elemento d’identificazione di suo padre furono le cicatrici sul volto, chiamate Schmisse, tipiche dei membri delle Burschenschaften. Oggi c’è una rincorsa al recupero di certe simbologie. Questa o altre pratiche identitarie di quell’epoca stanno tornando?
«Temo di sì. L’Austria è esemplificativa sotto questo profilo. Io sono cresciuto in una famiglia i cui maschi appartenevano tutti alle Burschenschaften di stampo tedesco-nazionalista, diventati poi senza eccezione convinti nazionalsocialisti e feroci antisemiti. Pensavo che il fenomeno si sarebbe estinto in modo “biologico”, per così dire, con la morte della generazione di mio padre e di mio nonno. Un errore fatale, come si è visto. Numerosi giovani membri delle Burschenschaften tedesco-nazionaliste e militanti del FPÖ, di estrema destra, sono al governo e ricoprono posizioni importanti nelle istituzioni. E sono animati dallo stesso spirito che animava mio padre o mio nonno…»
Se dovessimo darne una definizione, che cos’è oggi l’Europa?
«Un’Europa libera e democratica è una grandiosa possibilità, un importante strumento di pace la cui riuscita è per noi tutti importante per la nostra stessa sopravvivenza. Al contempo, tuttavia, oggi l’Europa sta vivendo una crisi profonda e pericolosa, che siamo chiamati a superare unendo le forze se non vogliamo ripiombare in un gretto nazionalismo associato a un egoismo particolaristico».
Cito una frase dal libro, credo molto significativa: «Ma la vita in comune non trasformava le persone». Ci siamo illusi di vivere apparentemente senza più frontiere, ora dobbiamo arrenderci al ritorno dei nazionalismi?
«Sono sempre più frequenti i segnali di un ritorno al nazionalismo, sia all’Est sia all’Ovest. È pericolosissimo e dobbiamo fare di tutto per contrastare queste spinte. Assistiamo spesso all’abbandono dell’idea di una “vita comune” senza confini, le destre di tutti i Paesi sostengono sia necessario richiudere le frontiere ed erigere steccati e muri. Una terribile prospettiva per chi abbia vissuto l’Europa divisa».
Può raccontare come si è mosso e a quali fonti è riuscito ad attingere nel lavoro di ricostruzione storica, dal ritrovamento del bunker al ruolo di suo padre nelle SS?
«Ho realizzato molte ricerche negli archivi in Germania, ma anche in Slovenia e Polonia. Altrettanto importante è stata la documentazione privata della mia famiglia. Purtroppo ho iniziato tardi a porre domande. Sono riuscito comunque ad assemblare parecchio materiale, al punto da poter scrivere qualcosa come una storia della mentalità».
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Martin Pollack ha la capacità di trasformare la storia in un racconto dai mille risvolti, con infiniti personaggi tratti dalle letture di testi e giornali dell’epoca. Ne coglie le caratteristiche e la quotidianità su uno sfondo storico che sa evocare con intensa partecipazione. Pagine che si leggono non di rado come un romanzo in cui le tragiche contraddizioni di quel tempo sembrano anticipare i disastri del Novecento, quando dopo la prima guerra mondiale la Galizia sarà cancellata dalle carte geografiche e le speranze dei ruteni, che ora si chiamano ucraini, di un proprio stato nazionale, non troveranno risposte. E in qualche modo questo complesso libro ci riporta al presente: a un popolo che non trova pace, a un paese distrutto da cui occorre fuggire per sopravvivere.
Luigi Forte, La Stampa, Tuttolibri
Nato nel 1944, giornalista e già corrispondente dello «Spiegel», grande viaggiatore per il quale viaggiare è anche — forse soprattutto — una forma di vita e di scrittura, Martin Pollack è autore di libri inconsueti e affascinanti, narrazioni di luoghi e di paesaggi veri e perciò ancora più fantastici e sorprendenti. Il paesaggio materiale e fantastico della sua fantasia creativa nutrita di precisione è la Mitteleuropa indefinibile e dai molti nomi: Mitteleuropa-austro-tedesca-slava-ebraica, tedeschi e austro-tedeschi, ebrei di tutte le nazionalità e lingue, sloveni, croati, serbi, cechi, slovacchi e cecoslovacchi…
Claudio Magris, Corriere della Sera
Penso si dovrebbe ridisegnare la geografia di questa parte di Europa. In quei territori infatti si celano fosse comuni dimenticate, in cui giacciono vittime senza nome che si è voluto nascondere agli occhi e alla memoria del mondo. Le faccio solo un esempio: in Slovenia, in quella meravigliosa terra, sono avvenuti oltre 600 omicidi e nessuno se ne ricorda. Il mio libro vuole essere un monito proprio contro l’oblio. Per me, sapere e conservare la memoria di chi è stato ucciso, è più importante che erigere monumenti. Quelli, si sa, vengono eretti ma anche distrutti. Invece occorre salvare i nomi e pensare a quei morti. Per poter guardare al futuro, bisogna conoscere la storia: Questo è il valore della memoria.
Da Intervista di Micol de Pas per Panorama. Qui interamente.
La storia della famiglia Bast è intimamente legata alla storia del Novecento in Europa centrale, con tutte le guerre e tragedie che l’hanno segnato. […] Un libro forte, denso, essenziale nelle parole, profondo nelle riflessioni.
Tino Mantarro, Touring
Questa Galizia sconosciuta, la cui memoria nell’Europa occidentale è andata perduta negli ultimi cinquant’anni, la racconta l’austriaco Martin Pollack in un libro rivelatore e straordinario: Galizia. Viaggio nel cuore scomparso della Mitteleuropa. Difficile definire la natura del libro: è un reportage, una guida, un resoconto storico, ma è soprattutto un omaggio a quel pezzo d’Europa che tra la fine del settecento e il 1919 ha fatto parte del regno di Galizia e Lodomiria, terra di confine dell’impero asburgico. La forma è quella di un romanzo di viaggio composto da frammenti di racconti, memoir e poesie di autori che scrivevano soprattutto in polacco e in tedesco. C’è il simbolo stesso della letteratura asburgica (Joseph Roth), ci sono grandi nomi oggi in parte dimenticati (Bruno Schulz), altri poco conosciuti e poco tradotti (Józef Wittlin e Karl Emil Franzos), e altri ancora mai approdati in Italia (Ivan Franko).…
Andrea Pipino, Internazionale
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